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Oggi è a tutti chiaro che il diritto penale non è più padrone in casa propria. Da un lato il diritto dell'Unione europea, la cui progressiva invadenza è giunta ad annettere - dopo il Trattato di Lisbona - significativi ambiti di competenza anche in materia penale; dall'altro, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il cui protagonismo è ormai conclamato specie nelle aule giudiziarie; senza contare le molte ulteriori fonti che possono essere tratte dalle orbite più remote della costellazione sovranazionale, e che non di rado sono portate all'attenzione di chi deve giudicare questioni penali. Proprio il ruolo del giudice, al cospetto della "frantumazione stellare" delle fonti, appare ormai profondamente trasfigurato: la sua opera quotidiana assomiglia a quella di un rapsodo o, meglio, di un bricoleur, coprotagonista del legislatore nella tessitura di una trama normativa sempre più poliedrica, complessa ed articolata. Così, chi giudica ha spesso la sensazione di trovarsi imprigionato in un "labirinto": per uscirne, deve tentare di ripercorrere le geometrie sconnesse dell'"interpretazione conforme", dialogando costantemente con le Corti sovranazionali, intarsiando precetti e sanzioni, soppesando obblighi e diritti, operando persino un difficile decoupage della normativa interna, "disapplicando" o rivolgendosi alla Corte costituzionale.